RINO D’AMBROS PITTORE FELTRINO

 

Rino D’Ambros nasce a Tomo, una frazione di Feltre, il 3 settembre 1920 da una famiglia di umili origini. Come altre aree venete, la zona del feltrino è zona di forte emigrazione e così anche il padre di Rino dovette e migrare in Svizzera per sopravvivere e mantenere la famiglia. Nel 1937 D’Ambros soggiorna a Milano (dalla sorella maggiore Natalina che qui fa la governante) e inizia a lavorare come tinteggiatore e decoratore d’interni. Per approfondire il grande fervore per la rappresentazione pittorica e data la sua notevole sensibilità per i colori, che utilizza con estremo entusiasmo e armonia, si iscrive ai corsi serali dell’Accademia di Belle Arti di Brera. La sorella Natalina racconta che Rino investiva tutti i soldi che guadagnava per acquistare colori, tele, pennelli e libri d’arte. A causa del lavoro discontinuo e della salute precaria, D’Ambros torna a Feltre durante il periodo invernale e, dal 1938 quando la sorella parte con il marito per l’africa, la sua permanenza a Milano diventa meno frequente. Chiamato alle armi, è inviato a combattere sul fronte albanese; ammalatosi gravemente, è rimpatriato nel 1942; esonerato dal servizio, è ricoverato in un ospedale di Innsbruk, dove lo curano per un anno intero.
Torna a Feltre, spinto dai suoi valori umani e sociali, D’Ambros si unisce ai partigiani dislocati sul monte Grappa e, diventato comandante di una cellula, si distingue combattendo valorosamente tanto che, a fine conflitto, è decorato con medaglia al valor militare. Il dopoguerra è durissimo, D’Ambros ritorna a Milano per cercare una qualsiasi attività lavorativa affine ai suoi interessi artistici: fa il vetrinista, il cartellonista, il disegnatore di filati in seta, il decoratore, il grafico pubblicitario, l’allestitore di stand per la fiera campionaria e per la triennale dell’arte. Nel frattempo, D’Ambros dipinge, dipinge, dipinge nutrendo la sua grande passione per l’arte. Ritorna a Feltre nel 1946, D’Ambros inizia un fervido periodo di scambi e confronti culturali e artistici; assieme ad un gruppo di artisti feltrini aderisce al circolo artistico utilizzando il caffè Mimiola (oggi non più esistente) come luogo di ritrovo e sede espositiva delle loro opere. Il circolo è animato dalla necessità di confronto tra i vari intellettuali che lo frequentano, si discute di filosofia, di politica, di aspirazioni, di futuro, d’intuizioni e di speranze. Le discussioni a volte diventano molto accese soprattutto se hanno come tema l’arte e le sue tendenze. Fra gli artisti che frequentano il circolo, oltre a D’Ambros, troviamo Attilio Corsetti, Giampiero Fachin, Bruno Milano, Tancredi e Romano Parmeggiani, Ruggero da Col, Alberto Mastellotto e Antonio Piccolotto (allievi del pittore Luigi Cima) e gli scultori Rinaldo Menegat e Primo Cecchet. Nel circolo gli artisti si dividono in due gruppi, due correnti stilistiche: una tradizionalista che segue la scuola veneta del paesaggismo, sostenuta soprattutto da Bruno Milano, l’altra d’avanguardia con gli sperimentatori delle nuove tendenze di cui faceva parte D’Ambros e Tancredi Parmiggiani. In quegli anni D’Ambros soggiornava frequentemente a Milano per lavoro e qui sente l’urgenza di un superamento di quell’arte ormai concepita come stagnante e la necessità di un cambiamento. Sono, infatti, gli anni in cui, in un clima di fervore artistico, prendono forma nuove tendenze artistiche tra cui lo “Spazialismo” di Lucio Fontana, Roberto Crippa, Mario Deluigi, ecc..
D’Ambros, similmente a questi artisti, sente urgente la propensione al rinnovamento e la necessità di approfondire con maggior forza la personale ricerca, senza condizionamenti e contaminazioni.

Nel 1954 D’Ambros sposa Dolores Vanin e insieme si stabiliscono a Cavarzere (VE) dove la moglie assume l’incarico di ostetrica comunale.
Frequentando l’ambiente artistico veneziano, D’Ambros ha modo di conoscere vari artisti: come Emilio Vedova, Virgilio Guidi e Mario Deluigi. Sempre a Venezia conosce Fiamma Vigo, la gallerista che lo supporterà e aiuterà promuovendo mostre personali e collettive nella sua galleria “Numero” (con sedi a Venezia, Firenze e Roma). Fiamma Vigo è una donna molto sensibile, fervida sostenitrice degli artisti d’avanguardia che aiuta e promuove disinteressatamente senza approfittarsene mai. Gli anni che vanno dal 1954 al 1970, trascorsi a Cavarzere, sono anni caratterizzati da serenità affettiva ed economica e dalla nascita dei suoi due figli: Lauro 1956 e Anita 1964. In questo periodo, D’Ambros porta la sua ricerca a maturazione, lo vediamo sperimentare nuovi metodi e nuovi materiali. L’osservatore attento può cogliere il filo conduttore del linguaggio utilizzato nelle opere, dove sono già evidenti i segni di un processo evolutivo in cui le sequenze divengono quasi obbligate: la pittura spazialista, la pittura cosmica, la pittura “verso l’infinito” diventano chiari gradini della sua ricerca per trovare l’uomo (e, in fondo se stesso) e collocarlo in una dimensione cosmica: la dimensione del “principio”. Si puo dire che in questo periodo D’Ambros passa da una pittura figurativa, dove l’anima dello spettatore è impressionata da una profonda resa con essenzialità (nulla nel quadro è superfluo, a volte utilizza pochi colori e poche linee) a una pittura dove è la materia, insieme ai colori, che parla e dà movimento. Una materia che parla di luce e ombre, di profondità e armonie, di solitudine e silenzi, di eterno e transitorio. il cambiamento si concretizza nelle opere degli anni 1950-1960, dove la superficie delle tela non basta più e l’artista vuole parlare attraverso le ombre e i colori con un preciso linguaggio armonico. La bidimensionalità della tela si anima di materia in rilievo che prende posto con estrema saggezza: sono inseriti sull’opera sassi, carboni, cere, fiammiferi e altro ancora. Il tutto prende vita insieme ai colori ottenendo visioni suggestive di pianeti e spazi cosmici.
“Verso l’Infinito” è un tema ricorrente nelle sue opere, come se la sua ricerca espressiva volesse raggiungere a tutti i costi una meta, quasi presagendo che il suo tempo è inesorabilmente limitato. Tra le varie opere nate in questo periodo ne troviamo una intitolata “Paesaggio lunare” (datata 1964) che rappresenta una visione della superficie lunare, un paesaggio straordinariamente simile a quello reale raffigurato nelle foto scattate nel 1969 dagli astronauti scesi sulla luna. Nel 1964 un evento drammatico scosse l’anima di D’Ambros: l’artista Tancredi Parmeggiani, suo caro amico, si suicida a Roma gettandosi nel Tevere. Dolores, la moglie di D’Ambros, raccontò che il marito, per il grande dolore provato alla notizia, si chiuse nel suo studio per tre giorni senza mai uscirne. Non era comunque insolito da parte di D’Ambros che, durante la composizione delle opere, fosse cosi concentrato da isolarsi nello studio per giorni interi senza neanche preoccuparsi del cibo.
Nel 1970 D’Ambros partecipa alla 35a Biennale Internazionale d’Arte di Venezia.
Sempre nel 1970 è chiamato a redigere, con una sua opera, il manifesto ufficiale dell’8a edizione del Festival Internazionale del Film di Fantascienza di Trieste: saranno suoi anche i manifesti degli anni 1971-1972-1973 e pure quelli 1974-1975 (nonostante l’artista fosse scomparso in aprile del 1974).
Nel 1971 D’Ambros si trasferisce con tutta la famiglia ad Ariccia, vicino a Roma, dove la moglie assume l’incarico di ostetrica comunale. In quell’anno, chi scrive frequentava il liceo artistico di Roma (terzo anno), frequentato anche da Lauro D’ambros, il figlio.
Con Lauro, per destino e affinità, diventammo subito molto amici condividendo vari interessi; proprio per l’amicizia che ci legava, ebbi modo di conoscere Rino frequentandone la casa. Ripensando a quel periodo ancora oggi mi è caro il ricordo di un aneddoto: quando incontrai la prima volta D’Ambros, nella sua casa di Ariccia, rimasi molto colpito per il suo silenzio; mi osservò con attenzione senza mettermi in imbarazzo e senza dire nulla e, nel successivo incontro, la moglie Dolores mi riferì che Rino approvava la mia presenza in casa loro e che potevo frequentare il loro figlio. Ai miei occhi di adolescente, D’Ambros appariva una persona riflessiva, di poche parole, estremamente attento ai valori dell’uomo e della società quindi di una persona molto interessante e da scoprire.
D’Ambros m’invito presto nel suo studio-laboratorio per farmi vedere le opere che stava realizzando. A volte si limitava a dirmi solo il titolo dell’opera; il suo intento era sicuramente quello di capire se riuscivo a scorgere e percepire il pensiero e le emozioni impresse nelle sue tele. Io rimanevo particolarmente colpito dal linguaggio che usava per rappresentare la sua ricerca espressiva, sì da far scaturire in me emozioni profonde, anche se ancora non coglievo appieno la profondità innovativa del suo linguaggio data la mia giovane età e la mia poca conoscenza dei vari linguaggi pittorici. Si può dire che ho conosciuto D’Ambros e i suoi lavori negli anni ’70, nel pieno di una maturità artistica orientata a un linguaggio e a una ricerca tutta sua: il Cosmo e l’Infinito. Le sue opere non sono mai nate di getto, sono sempre state frutto di una lunga meditazione e concentrazione su di un tema e solo dopo un lungo periodo di riflessione l’idea prendeva forma. Spesso andava a cercare i suoi pianeti lungo il fiume Piave e, solo dopo aver trovato e scelto i sassolini della giusta forma e dimensione, si accingeva a predisporre l’opera.

Una volta mi raccontò che diede alla moglie una candela accesa sotto cui aveva posto una sua tela e a comando le diceva quando far cadere le gocce di cera. Queste, come meteoriti in caduta sulla terra, si andavano a collocare in punti prestabiliti del quadro a sancire che nulla è posto a caso ma tutto è stato meticolosamente pensato. Non era comunque raro, quando il risultato ottenuto in un’opera non lo rendesse soddisfatto, che la distruggesse per ricrearla. Anche la forma e la dimensione delle tele (che si costruiva da solo) dovevano contribuire a descrivere ed enfatizzare la visione dello spazio. Nell’ultimo periodo, le tele avevano conquistato la forma di tondi ed ellissi dando all’osservatore un’occasione per una visione speciale dell’opera. La bidimensionalità della tela era superata da tempo. Con l’inserimento di vari materiali in rilievo aveva acquistato una nuova dimensione, quella della profondità spaziale che, però, non era ancora sufficiente per trattare appieno la sua ricerca. D’Ambros aveva bisogno di proiettarsi “Verso l’Infinito”. La tela aveva superato anche il freddo bassorilievo acquistando una nuova dignità mediante la luce e il movimento della materia. L’inserimento della luce e dell’ombra sui rilievi della tela hanno dato alle opere una magistrale svolta espressiva quasi a dirci che l’opera vive di luce propria. Il movimento dato alla materia, reso visivo da ellissi, iperboli e spirali è un movimento armonico che vive nel cosmo e nella nostra anima.
Come tutti i genitori, D’Ambros veniva a trovarci a scuola per parlare con i professori delle materie artistiche seppur, già dal primo incontro, ricevette un’impressione negativa dei professori. Ci diceva che sarebbe stata dura ricevere qualcosa di buono da questi insegnanti, ci consigliava di non utilizzare la matita come un aratro per scavare ma con la leggerezza di una piuma che è destinata a scrivere poesie, solo così ci saremmo allenati a trasmettere ciò che l’anima vuole.

Dal 1971 al 1974, D’Ambros continuava la sua ricerca “Verso l’Infinito” e per mezzo della geniale tecnica innovativa riesce a far vivere le sue opere anche nel buio totale; questo grazie all’uso dei colori acrilici e di polveri di fosforo colorate che producono un effetto di luminescenza.
Come l’osservatore può vedere le stelle in un cielo notturno, così può vedere le sue opere che si illuminano nel buio.
D’Ambros crede che dipingere le stelle è cosa facile ma è farle sentire “vive” e calde di un fuoco interno, pronto ad esplodere da un momento all’altro, che è un’impresa ardua e faticosa.
Le opere sono immagini viventi della sua ricerca espressiva e artistica che è la luce della sua vita, lunga testimonianza di estrema coerenza tra aspirazioni, vissuto e valori.
Mete e aspirazioni ultrasensibili che sono raffigurate da giochi di luce e ombre sulle sue tele dove il suolo è l’elemento che illumina il quadro e le ombre sono l’immagine delle sue sofferenze, del limite da superare.
Riporto qui un suo scritto apparso sul catalogo dell’8a edizione del Festival Internazionale del Film di Fantascienza di Trieste.
“L’asteroide: un continuo, ossessivo movimento d’idee e di sentimenti mi pervade e mi turba in un quotidiano immaginare. Osservo, ascolto, contemplo e medito ma sempre al di là della realtà sensibile, che a volte quasi mi soffoca e per la quale spesso mi ribello, scopro il mio universo “infinito” ove mi è consentito ogni discorso, ogni fantasia, ogni battaglia. Forse sono venuto da là e forse per questo il mio sguardo e la mia sete trovano il posto e la soddisfazione solo nel mistero dello spazio infinito”.
D’Ambros diceva che per concludere la sua ricerca avrebbe avuto ancora necessità di quattro o cinque anni di lavoro ma questo purtroppo non avvenne: nel 1974, all’età di cinquantaquattro anni, mori improvvisamente, il suo cuore già molto debole decise di fermarsi. Noi che lo abbiamo conosciuto ci siamo spesso chiesti dove avrebbe voluto portare la sua ricerca e quale velo, quale stella, quale limite avrebbe voluto oltrepassare per trovare la sua pace.
Rino D’Ambros è stato un precorritore di strade che portano l’uomo a crescere in questa esperienza umana in costante evoluzione e trasformazione sia nel Bene sia nel Male e Oltre.
Le sue opere parlano alle anime degli uomini di ogni tempo, parlano di un’esperienza e di una ricerca sempre viva e piena di sofferenza. Una “ricerca dello spirito” con le eterne domande che l’uomo si pone (da dove veniamo? dove andiamo? quale è il motivo dell’esistenza?) ma cui pochi vogliono trovare le risposte. Rino D’Ambros cercava le risposte con assiduità, con strumenti che aveva: la mente e l’arte. Ciò che non riusciva a trovare o a vedere sulla terra (luogo di sofferenze e ingiustizie), lo cercava nel cosmo e nell’infinito (dove regna l’armonia e l’equilibrio). L’artista è un ricercatore solitario che indaga sull’origine dell’uomo, cerca l’essenza delle cose e dello “spirito”, cerca se stesso. Nelle sue opere non indaga l’essere umano o le sue passioni, ma indaga il luogo dove nascono gli archetipi delle forze umane. D’Ambros è comunque presente nelle opere con la sua “essenzialità”, con il suo “Io”; a volte riesce a illuminare l’opera stessa, a volte i tratti della sua immagine mostrano la profonda angoscia e sofferenza.
Rino D’Ambros, uomo di poche parole, ha dedicato molto tempo all’indagine espressiva e attraverso la riflessione e la meditazione, sui temi a lui cari, ha trovato la sua “essenzialità”. Il suo lavoro di ricerca l’ha portato a sviluppare le forze necessarie per “vedere con anticipo” alcuni eventi umani. Usava annotare le sue idee su un quaderno nero con bordi rossi, si può dire quaderno della memoria, per lasciar traccia e testimonianza dei suoi pensieri.
Ha scritto Friedrich Schiller: “Devi aprirti alle ampiezze, perché l’universo si formi in te”.
sono convinto che Rino D’Ambros abbia fatto suo e vissuto fino in fondo questo pensiero.

Le evoluzioni di spirali, ellissi e iperbole, sono la concretizzazione del principio dei movimenti che D’Ambros ha carpito al cosmo.
Osservando le opere con la mente, oltre che con il cuore, possiamo ritrovare, nell’andamento delle linee, segni di equilibrio, di movimento, di ordine, di legame o del suo contrario.
Analizzando la spirale e il suo senso di evoluzione (orario e antiorario) vediamo che evolvendosi in senso orario raccoglie e conduce le forze verso il suo punto di origine (centro); le lega, le materializza e le rende familiari alla nostra realtà.
Diversamente, l’evoluzione in senso opposto, scioglie e slega le forze presenti al punto di origine (centro) e, portandole verso l’esterno, le disgrega. Due sensi dinamici, due polarità, due principi opposti.
Cosa o chi determina il senso di evoluzione della spirale? Questo quesito trova risposta nella considerazione che al punto di origine (centro) della spirale agiscono le forze dell’ “IO” che, per mezzo del dominio sulle forze del pensare e del volere, la fa evolvere in un senso o nell’altro.
L’autore dell’opera è l’IO che decide il senso di evoluzione, l’IO che illumina e dà valore alle tracce lasciate sui pianeti, l’IO che apre l’anima facendo risplendere sull’opera la profondità del Cosmo Infinito.
L’IO che, osservando il Cosmo riflesso nell’anima, sente il principio della sua Origine.
Ha scritto Rudolf Steiner: ” Nell’essere umano esistono due polarità: la testa e le membra, un polo relativamente calmo e un polo dove confluisce la volontà, l’uno è il dominio del pensare l’altro è il dominio del volere. Il pensare può irrigidirsi in concetti morti, ma può anche essere compenetrato dalla luce della saggezza. Il volere può dissolversi nel caos, ma può anche essere impregnato di Calore d’Amore. E’ la forza dell’IO che può stabilire l’armonia, l’equilibrio tra le due forze cosmiche”.

autore: Arch. De Pascalis Marcello

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